Diritti umani: prospettive dal Brasile

di Matteo Finco

La tradizione occidentale – anzitutto europea, e più tardi anche statunitense – ha prodotto una serie di concetti, dunque idee, che hanno assunto nel tempo il rango di valori: cioè riferimenti essenziali, che vengono usati come presupposto per la comunicazione e dunque come base per produrre accordo all’interno della società. Per questo i valori vengono in prima istanza dati per scontato, altrimenti tendono appunto a perdere la loro capacità di produrre riconoscimento ed orientamento: generali e astratti, essi possono essere declinati in differenti situazioni concrete nel corso del tempo. Permettono così di mantenere tradizione mentre questa si trasforma. Ovvero, di mantenere l’identità nel mutamento.

Quando vengono messi in discussione o in contrapposizione tra loro, i valori aprono la strada al conflitto e non sono più in grado di indicare cos’è bene e cos’è male, oppure incoraggiano la convinzione che la convivenza non sia possibile. In ogni caso, tendono a perdere la loro utilità: se non vengono più riconosciuti e assunti in pieno, dunque sentiti come propri e rivendicati, diventano obsoleti, o al limite di nicchia, riguardano cioè una minoranza. Quando invece guadagnano forza e diventano tanto rilevanti da assurgere a simboli che incarnano le lotte e le conquiste del passato e in nome dei quali si continua a combattere, allora la loro pretesa di universalità si fa sempre più forte. Anche qui, tuttavia, il rischio di assolutizzarli e sacralizzarli è sempre all’agguato, con la possibilità di produrre gli stessi effetti di cui sopra (stimolazione del conflitto, incapacità di intendersi) quando non vengano assimilati da altre tradizioni o contesti così come sono stati trasmessi loro.

L’esempio dei diritti umani è emblematico: anzitutto, essi vengono talvolta visti essenzialmente come privilegi delle nazioni potenti, che hanno progressivamente allargato tali garanzie inizialmente ristrette a gruppi ben circoscritti ed identificabili. Ma soprattutto: la loro pretesa di universalità si rivela intrinsecamente un problema. L’universalità – anzi, si potrebbe dire che essi siano l’universale assoluto – ne determina il maggiore potenziale possibile di applicazione e azione. Allo stesso tempo, pur essendo frutto della tradizione veteroeuropea, se ne distaccano. Al loro cospetto perde rilevanza per qualsiasi differenza di ordine sociale e culturale, per includere appunto il mondo intero. Proprio per questo tuttavia non dovrebbe sorprendere che tale pretesa universalista possa essere tacciata di imperialismo, o quantomeno di costituire un indebito tentativo di “intromissione” da parte dell’Occidente in culture altre. Detto altrimenti: l’universalità è problematica proprio perché rinuncia alle differenze e dunque agli specifici aspetti positivi e negativi che esse portano con sé. Creano un ambiente unico, idealmente inclusivo, ma che proprio per questo obbligano a lasciarsi indietro le tradizioni e le storie specifiche, cioè la diversità. Non è detto che ciò venga accettato pacificamente: al contrario, il valore assoluto e universale per eccellenza, se percepito come imposto dall’esterno, viene facilmente rigettato.

A questo proposito, basti ricordare la riflessione di Panikkar relativa alla loro applicabilità nel contesto asiatico. Il concetto occidentale di diritti umani sottintende infatti vari assunti strettamente connessi alla cultura che lo ha prodotto: quello di una natura umana universale, che sarebbe possibile conoscere attraverso l’attività razionale, cioè il pensiero; quello relativo alla dignità dell’individuo, che implica la separazione fra questo e la società e l’autonomia del genere umano; nonché il concetto di democrazia. Tali assunti non sono però universalmente riconosciuti, ed è difficile pensare che ci possano effettivamente essere concetti e valori con tali caratteristiche.

Bisognerebbe dunque guardarsi dalla tentazione di considerare i diritti umani come una specie di “nuova religione dell’umanità”, poiché in questo modo si rischia di relegarli all’utopia o alla dottrina.

In definitiva, la storia mostra facilmente quanto nell’ambito dei diritti fondamentali ed umani (come sempre d’altronde, quando si tratta di società e cultura), si abbia a che fare con costrutti determinati, dunque non naturali, e perciò tali da non poter mai essere dati per scontato. Proprio per questo, tuttavia, occorre interrogarsi sempre su di essi: per testarne l’attualità, l’utilità, la potenzialità nel presente. Vanno messi alla prova, di fronte alle sfide del presente. Se non ci aiutano a “leggerlo”, alla luce della tradizione che essi stessi incarnano, se si rivelano limitanti di fronte al nuovo, vanno necessariamente messi in discussione. Per essere risemantizzati, di fronte a nuove fattispecie, ad eventi e fenomeni inediti, in un mondo sempre più globale, largo, inclusivo – almeno a parole – ed in cui tuttavia cui gli orrori della storia non finiscono di ripetersi.

Sta qui forse la forza più grande dei diritti umani: al contempo, la loro vera essenza e il loro valore pratico. Non nella dimensione etica che esprimono in superficie, nella dimensione del progresso che si pensa rappresentino e rendano possibile, nel fatto che ci permettono di sentirci più buoni, migliori rispetto ai nostri simili delle epoche che ci hanno preceduto; invece, i diritti umani servono nella misura in cui permettono di rilevare il male, il limite dell’(in)umano, il punto che non si può oltrepassare senza perdere la differenza essenziale che – vogliamo continuare a convincerci (illuderci?) – ci distingue dagli animali. Se quel che «vi è, nell’uomo, di più specificatamente umano» (Durkheim) rimanda alla società, allo stare insieme, fianco a fianco, gli uni gli altri, allora i diritti umani sono lo strumento che ci consente di ri-conoscerci, proprio come esseri umani, dal desiderio potenzialmente illimitato, ma proprio per questo da limitare, contenere, per lasciar esistere quello altrui. I diritti umani ci dicono allora che, nonostante continuiamo a sbagliare, a uccidere, a commettere abomini, sappiamo già che c’è un’alternativa, che la storia ci insegna e che ci indica la possibilità di un futuro, non illusorio, idilliaco, ma che è già stato immaginato e che possiamo costantemente re-immaginare, che possiamo continuare a riempire di significato. I diritti umani, in altre parole, altro non fanno che “dirci” cos’è umano, dove sta il limite che non è possibile oltrepassare senza sentirsi altro, senza ridurre la nostra esistenza alla corporeità bruta, all’istintualità pura, che preclude l’accesso ai frutti più maturi dell’esperienza simbolica.

I diritti umani ci permettono così di investigare la relazione dinamica e in continua evoluzione fra struttura e semantica della società: cioè fra l’ordine sociale – nella sua costante instabilità ma al tempo stesso, se pur improbabile, realtà – e il senso sociale – i significati, i valori, le norme, gli immaginari, emergenti dalla comunicazione. Da un lato la risemantizzazione continua dei diritti umani – la loro messa alla prova di fronte alla storia e al presente – contribuisce a dare un ordine alla realtà sociale – a stabilire i confini del lecito, a regolare la sensibilità nei confronti della violenza, a dare espressione alla spontanea ripulsa di fronte alle violazioni della dignità umana; dall’altro, le strutture esistenti – norme, istituzioni, organizzazioni, meccanismi di sorveglianza e sanzione, e altro ancora – rendono i diritti umani concreti, utili strumenti per intervenire sulla realtà e continuare a trovare il senso del nostro agire.

L’analisi delle strutture esistenti e quella del senso, del significato dei diritti umani vanno allora di pari passo: si co-implicano, e non possono limitarsi alla riproduzione di quello che la tradizione porta con sé. Per questo è tanto importante guardare “fuori” dall’Occidente, verso quello che qualcuno continua a chiamare “Sud” del mondo, o globale, una sorta di “modernità periferica”, strutturata a partire dall’eredità coloniale, ma sviluppatasi con caratteri propri, imprevedibili. Realtà come quella sudamericana, dove esistono carte costituzionali, trattati internazionali, ordini giuridici e apparati giudiziari, forze di polizia professionali, organizzazioni statali e della società civile, che hanno ereditato i valori occidentali – in primis appunto i diritti umani – e che, combattendo le violazioni costanti di tali diritti, riescono a dare a quest’ultimi sostanza, utilizzandoli e rivendicandoli come propri, mettendo a nudo il male e combattendolo.

In questa lotta quotidiana, il pensiero e l’agire politico si intreccia all’attivismo, alla testimonianza, all’educazione, all’esercizio della cittadinanza, e naturalmente alla riflessione scientifica, cioè rigorosa, metodica, anche se rivolta al sociale. Per questo risulta tanto difficile separare, nell’ambito dei diritti umani, la distinzione tra teoria e prassi: la riflessione rende possibile l’azione, e l’azione obbliga alla riflessione, alla rimessa in discussione. La realtà, sempre nuova, impone la ricerca di soluzioni anch’esse inedite, il rafforzamento dei diritti e dei concetti che li sostengono, proprio per rendere i diritti effettivi, riconoscendo e condannando le violazioni in nome dei valori che sostanziano lo stare insieme, riconoscendosi come simili.

I testi presentati in questa sezione speciale affrontano differenti fattispecie di diritti umani, problematizzati nell’ambito di questioni, situazioni e condizioni sociali determinate, ma tutte relative al contesto brasiliano. Una realtà che può apparire distante, altra, ma in cui – in virtù della dimensione globale tanto delle lotte quanto della riflessione e della discussione – a partire da rivendicazioni e concetti familiari in Occidente, emergono prassi e proposte e maturano saperi originali.

Neiva de Assis, a partire da un approccio psicologico-critico e sulla scorta dell’esperienza concreta di una comunità di discendenti di schiavi neri (un quilombo urbano), riflette sulle violazioni dei diritti umani prodotte da un razzismo e da un’eredità coloniale che appaiono strutturalmente aderenti alla realtà sociale del paese.

Ezequiel Cruz de Souza e Rosane Teresinha Carvalho Porto prendono in analisi lo strumento giuridico della mediazione sanitaria e il suo utilizzo nell’ambito del diritto del lavoro, per garantire il rispetto della persona e la possibilità di un ambiente sicuro e salubre, mostrando così tanto i limiti quanto le potenzialità di un mezzo alternativo per la risoluzione dei conflitti.

Maiquel Wermuth analizza il ricorso sistematico alla violenza da parte delle forze dell’ordine nei confronti della popolazione nera, riconducendolo alle sue origini coloniali e interpretandolo come una strategia di controllo che si traduce in una “selettività punitiva” che rende opaca, se non indistinguibile, la differenza tra diritto e violenza.

Questa sezione speciale della rivista vuole in questo modo far riflettere, senza darla per scontato, sull’utilità della categoria dei diritti umani, a partire da punti di vista che, pur servendosi di categorie e concetti consolidati nel pensiero di matrice europea e nordamericana, li interpretano nel contesto di situazioni molto diverse da quelle che si presentano abitualmente in Occidente.

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