Enrica Tedeschi, Semplice, buttato via, moderno. Il “teatro per la vita” di Gianrico Tedeschi, Viella, Roma, 2019

Enrica Tedeschi, nel 2013, periodo in cui ospita nella sua villa di campagna il padre, Gianrico Tedeschi, mentre la moglie Marianella è in ospedale, intrattiene un lungo dialogo con il padre novantenne, nel quale ripercorre gli anni della sua vita, quella dei suoi primi anni di bambino, vissuti a Milano, della sua giovinezza con le sue passioni e ideali, frustrazioni e, soprattutto, gli anni del suo internamento nei lager nazisti di Lipsia, Benjaminovo, Sandbostel e Wietzendorf in Germania, dopo l’8 settembre, quando nel Nord Italia si insedia la Repubblica di Salò. In questi lager vi sono moltissimi i militari che hanno scelto di non aderire a Salò e di non lavorare nei campi tedeschi per i tedeschi.

Ne viene fuori una lunga e profonda intervista, una “storia di vita”, che è un incontro di cuori e di intelligenze, un mescolamento di sentimenti, di fatti, alcuni dei quali già conosciuti e raccontati anche prima in famiglia ma che, col passare del tempo riaffiorano alla memoria di Gianrico, con maggiore chiarezza e intensità, il cui racconto diventa sempre più una sorta di storia collettiva di personaggi che hanno avuto un ruolo importante per lui, per la storia italiana, di cui è testimone privilegiato,  e familiare.  

La vita personale e le sue scelte s’intrecciano con la sua storia professionale, che è quella soprattutto di attore di teatro, talora regista e tante altre cose, a tal punto che a volte nel racconto non si distingue l’una dall’altra. Possiamo dire che la vita di Gianrico è quella di un “teatro per la vita”, come si legge nel titolo. Cosa sarebbe stata la sua vita senza il teatro?  E cosa sarebbe stato il teatro avulso dalla vita? Ripercorrendo in vari giorni e in vari momenti della giornata la sua vita, racconta la “sua” storia del teatro.

In moti punti diventa un romanzo, una sorta di sagra familiare, soprattutto quando arriva, nella villa di campagna di Enrica, dove abitano anche Claudio suo marito e la loro figlia Alba, la sorella Sveva, nata dal secondo matrimonio di Gianrico, i suoi piccoli nipoti Leandro e Leonora, tutti presenti in quella casa, tutte persone che a vario titolo, seguono e partecipano al racconto creando un confronto generazionale molto dinamico.

Il racconto inizia nel mese di maggio, all’uscita di Via Marsala della Stazione Termini, luogo emblematico ed evocativo del primo viaggio di Gianrico, quando giunge da Milano a Roma e vi resterà per fare l’attore di teatro.

Il soggetto che dà il titolo al libro, scrive l’Autrice, è «la chiave della tua recitazione, del tuo essere in scena, del tuo trasformare il teatro. Il teatro non è più lo stesso dopo i tuoi “soggetti”, quelli che nel corso del tempo hai inserito nei tuoi copioni, nelle tue parti in commedia […]. Eri Pantalone, il capocomico e davi istruzioni ai tuoi attori. Stavi spiegando come andava recitato quel canovaccio […]. Davi un’indicazione di regia. La battuta va detta così, dovete recitare così: semplice, buttato via, moderno!» (p. 13). In questa espressione sono racchiuse non solo la modalità della sua recitazione ma anche la sua filosofia di vita e le sue relazioni con gli altri attori e con il pubblico. «Semplice: privo di orpelli, essenziale, sobrio. Buttato via: senza retorica, senza enfasi, senza ideologia. Moderno: diretto, autoriflessivo, tagliente» (ivi).

Questi sono stati i tratti della personalità di Gianrico fin da bambino, in famiglia, a scuola, negli anni della sua socializzazione umana e culturale a Milano, dove nasce il suo amore per il teatro che era una passione di famiglia, così come lo era l’antifascismo.

Poi il racconto drammatico-ironico-serio degli anni del fascismo a Milano fino all’8 settembre, quando lui con gli altri soldati italiani combattevano in Grecia e la scelta di non aderire alla Repubblica di Salò. Ha inizio così il viaggio attraverso i vari lager, Lipsia, Benjaminovo, Sandbostel e Wietzendorf. La narrazione del periodo trascorso in Germania procede mischiando i ricordi molto precisi di quegli anni con le rappresentazioni che negli anni successivi ne ha fatto sul palcoscenico (soprattutto in Smemorando), dove ha potuto dire l’indicibile, sconosciuto anche alla stessa famiglia, perché come dice ad un certo punto: «Il palcoscenico mi ha sempre dato di fare qualunque cosa». Ciò è accaduto anche nei due anni di lager dove ha recitato tra l’altro Enrico IV di Pirandello e Spettri di Ibsen, e così ha salvato gli altri e sé stesso. «In prigionia, recitare è stato la mia salvezza» (p. 61). «Il teatro ha la capacità di svelare ciò che è nascosto perché …Chi vive di teatro è signore e prigioniero di questa magia. Signore, perché può parlare direttamente, prigioniero, perché al di fuori del palcoscenico non può più dire nulla» (p. 62). Per questo il teatro ha avuto anche una funzione catartica per Gianrico; non si è dimenticato delle vittime della guerra e del male dei lager ma, portando alcune storie in teatro, si è sentito meglio. Nel teatro si possono dire cose che non si devono dimenticare. Gli internati nei lager, che si erano rifiutati di lavorare per i tedeschi, per non contribuire a sovvenzionare la guerra, sono stati salvati dalle attività culturali che hanno organizzato con i mezzi che avevano nel momento in cui sono stati fatti prigionieri: i libri, con i quali hanno costruito la biblioteca, gli strumenti musicali, le rappresentazioni teatrali, etc. sono trascorsi così due anni, che ricorderà per sempre nella sua vita.

Recitare nei lager prima e recitare il lager dopo è stato tutto un continuum……tutta la sua vita. …e poi il ritorno in Italia, con i suoi problemi, le delusioni, i tradimenti, le frustrazioni ma soprattutto il rapporto ambiguo con la libertà. Rapporto sofferto come è stato vissuto dagli Internati Militari Italiani (IMI), come furono chiamati gli italiani che dopo Salò furono nei lager e, al loro ritorno, hanno sempre avuto una vita difficile, anche in anni recenti, spesso ignorati, come scrive anche L. Zani nella bellissima postfazione al testo. Nel tentativo di riprendere la vita di prima o un’altra diversa, loro si accorsero che «Nessuno voleva saper e noi stessi non volevamo ricordare!» (104). Molti non hanno più voluto rivedere i posti dove erano stati e non ne hanno parlato neppure in famiglia, come è avvenuto per tanti ex deportati ebrei.  

I racconti di Gianrico vanno avanti tra le gite nella campagna lungo la via Tiberina e alle pendici del Soratte nel Lazio, con lo sfondo di paesaggi bellissimi descritti con grande maestria dall’Autrice, in quelle pagine della seconda parte del testo in cui ripercorre, senza ordine cronologico, seguendo il fluire dei ricordi, la carriera teatrale di Gianrico, “interprete della modernità”. Si scrive così una sorta di storia del teatro italiano del secondo novecento dal ‘47 in poi. Sono evocati, insieme al narratore tanti suoi compagni di viaggio, maestri e personaggi illustri: Guareschi, G. Cervi, V. Gassmann, A. Magnani, M. Ferrero, M. Scaparro, Streler, Grassi, Squarzina, Ronconi, O. Costa, P. Stoppa, U. Tognazzi, Eduardo, M. Mastroianni, R. Ruggeri, F. Valeri (alla quale l’Autrice fa una bella intervista inserita nel testo), M. Benassi, U. Pagliai, A. Pagnani, G. Patroni Griffi, L. Mondolfo, R. Mainardi ed altri.

Si disegna con maglie sempre più strette il legame del teatro con la libertà; il teatro non è per definizione antifascista ma certamente, dice Gianrico: «Senza libertà niente teatro. […] Quando reciti Shakespeare, quando reciti Čechov, non fai solo arte, fai anche società. Costruisci legami sociali, dici le cose come stanno, racconti delle verità. Una società che si costruisce sulle bugie è falsa, non tiene, non ha coesione. questo è uno dei compiti del teatro. le emozioni sono un fatto privato ma sono anche un fatto collettivo» (p. 128).

Cos’è la modernità del teatro di cui parla Gianrico? É la capacità per il regista e per l’attore di capire come un testo, anche antico, può essere detto ad un pubblico che è contemporaneo, che vive l’oggi. Il testo per essere moderno deve «stupire»: «Qualcosa in tutto l’ingranaggio deve essere nuovo…moderno» (p.133).

L’intervista, è ripresa alcuni anni più tardi, nel 2017, nella casa di Gianrico sul lago d’Iseo, in Piemonte, in uno scenario diverso, dove vive con la moglie. Si sa, i colloqui più sinceri hanno bisogno di tempo e di spazi lunghi. In questo contesto si affrontano due temi importanti: il suo rapporto con il “potere” e la “dipartita”, rappresentazione teatrale e metafora della vita. Sebbene non esplicitamente, in molti suoi spettacoli è stato raccontato il potere (PigmalioneIl discorso dell’uomo politicoSmemorando). Ora “l’ultimo dei giganti”, come è stato definito, ha 97 anni, recita da 90 anni, come ci tiene a precisare, considerando anche le recite da bambino in oratorio, ma il suo desiderio di vita è ancora immenso: «La voglia di vivere è sempre più forte. E la bellezza è l’ultima barriera contro il nulla» (p. 160).

Gianrico resta moderno e contemporaneo anche a 97 anni e soprattutto ottimista. Le chiede la figlia: «Papà cosa pensi tu di questi tempi che stiamo vivendo? – Cosa penso? che farà giorno. È solo questione di tempo, ma farà giorno» (p. 164).

A quale genere appartiene questo testo? alla storia? alla letteratura? alla biografia? Mi piace pensare che è un testo sociologico, che descrive il costume, la cultura, la storia della società del novecento italiano. Il metodo è quello qualitativo, che usa più che l’intervista, la “storia di vita”. Per una sociologa esperta del metodo qualitativo biografico, qual è l’Autrice, però la raccolta della “Storia di vita” non è stato solo un ulteriore esercizio professionale perché questa è una storia di vita “coinvolgente” e “intensa”, che investe tutta la famiglia. Probabilmente nel corso di questa scrittura avrà sentito il peso e la responsabilità del suo ruolo, poiché, come afferma Lei stessa, ha preso l’impegno di scrivere la biografia del padre per conto di tutta la famiglia. Certamente è un compito difficile ma che ha assolto pienamente, senza tradire la sua mission familiare di figlia, sorella, zia, moglie, madre e di sociologa per tutti noi.

Carmelina Chiara Canta (Professoressa ordinaria di Sociologia dei Processi culturali e comunicativi presso l’Università degli Studi Roma Tre – Dipartimento di Scienze della Formazione)

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