di Mario De Caro
Celata dagli infiniti rivoli della caotica discussione pubblica sulla pandemia da coronavirus, una questione merita un breve approfondimento: si tratta della tensione, oggi particolarmente avvertita, tra libertà individuale e sicurezza generale. Rispetto a questo tema, infatti, negli ultimi anni le scienze della mente/cervello – e in particolare la psicologia sociale – hanno mostrato aspetti nuovi e indubbiamente rilevanti per la comprensione dell’attuale situazione.
Una delle acquisizioni fondamentali della modernità è l’idea del valore fondamentale della libertà individuale ossia della possibilità da parte dei soggetti di scegliere, senza costrizioni o impedimenti, i valori e i fini a cui improntare le proprie scelte e azioni. Si tratta, sappiamo, di un bene preziosissimo, prioritario su tutti gli altri: un bene che va protetto con la massima cura. Ciò non vuol dire, naturalmente, che alla libertà, oltre a limiti illegittimi (posti, per esempio, dai governi illiberali), non si pongano anche limiti legittimi. Anzi, di libertà si discute tanto proprio in quanto a essa possono, in determinate occasioni, essere posti limiti legittimi: se non fosse così, d’altra parte, non ne parleremmo tanto, così come non parliamo della possibilità di respirare. «La mia libertà finisce quando inizia quella degli altri» recita una famosa massima: il problema, però, è capire dove si situa il confine.
In alcuni casi, in cui il concetto di libertà individuale è richiamato a sproposito, la questione è semplice da risolvere. Ciò accade, non sorprendentemente, anche nell’attuale accalorato dibattito sulla pandemia. Così, per esempio – soprattutto negli Stati Uniti, ma anche in Europa – oggi si sente spesso ripetere che l’obbligo di usare la mascherina nei luoghi pubblici sarebbe una violazione della libertà individuale. Ovviamente non è così: se la mascherina fosse utile solo al soggetto che la indossa, forse la cosa si potrebbe anche discutere; ma questo dispositivo serve anche (e soprattutto) agli altri, per evitare che vengano contagiati. Ma questa è una banalità, che si può continuare a diffondere soltanto in mancanza della minima cultura civica: in un caso del genere, infatti, è ovvio che le ragioni della sicurezza collettiva abbiano priorità sulle quelle della libertà individuale. Più complessa, casomai, è la discussione su altri temi, come quello dell’obbligo vaccinale.
Qui, però, dobbiamo limitarci soltanto ad accennare a un altro tema, più fondamentale, ossia a un limite per così dire “interno” della libertà individuale. Come detto, il presupposto dell’idea di libertà è che ognuno deve poter decidere per suo conto i valori cui attenersi con le proprie azioni e i fini da perseguire. Questa idea presuppone che ogni soggetto sano di mente sia sostanzialmente razionale e che in genere conosca e valuti correttamente le motivazioni che lo spingono all’azione, scegliendo quelle meglio giustificate. Che però le cose stiano veramente così – che cioè gli esseri umani esibiscano una razionalità di questo genere – è tesi che è stata messa drammaticamente in questione dalle scienze cognitive contemporanee, e più in particolare dalla psicologia sociale.
Facciamo qualche esempio. Gli studi di Daniel Kahneman e Amos Tversky hanno dimostrato come gli individui violano sistematicamente i classici principi della razionalità economica, secondo cui i soggetti perseguono i loro fini scegliendo i mezzi più idonei ad ottenerli. Richard Thaler e Cass Sunstein, da una prospettiva di libertarismo moderato, hanno convincentemente argomentato che un qualche livello di paternalismo da parte dello Stato nel guidare le nostre scelte è accettabile, e anzi auspicabile, perché lasciati a noi stessi, generalmente compiamo scelte sbagliate, se non del tutto irrazionali. Il compianto Daniel Wegner e Petter Johansson hanno documentato empiricamente che in molti casi (molti di più di quanto ci piacerebbe credere) noi semplicemente non sappiamo perché compiamo le scelte che compiamo e, per questo, a posteriori ci inventiamo presunte giustificazioni razionali di tali scelte.
Infine, parrebbe che nessuno di noi sappia veramente quale siano i propri limiti conoscitivi. Pochi anni fa, due psicologi, David Dunning e Justin Kruger, hanno infatti individuato sperimentalmente una comunissima (anzi universale) distorsione cognitiva che si chiama, appunto, “effetto Dunning-Kruger”. Detto in breve: più un individuo è incompetente in un determinato campo, meno se ne rende conto. E ciò spiega perché ci siano milioni di epidemiologi, di commissari tecnici, di esperti di scienze dell’ambiente, di critici d’arte, di politologi e (si parva licet) di filosofi. In tutti questi campi, chi dovrebbe tacere e ascoltare i veri esperti (o, almeno, dovrebbe interloquire con grande rispetto), spesso straparla, pretendendo che la propria opinione sia considerata tanto rispettabile quanto quella dei veri esperti. Un fuorviante ideale di egalitarismo cognitivo, insomma.
Tutti questi evidenti e pervasivi limiti della razionalità individuale suggeriscono che quando sono in gioco questioni di salute pubblica di grande rilevanza – come accade oggi nel contesto pandemico –, per i governi possa essere lecito, molto più di quanto non accada in periodi normali, imporre per via normativa il rispetto del parere degli esperti, e ciò anche quando ciò implichi decisioni impopolari. In buona misura, questo suggerimento è corretto; però in proposito è necessario fare tre precisazioni.
Primo, accade spesso che anche gli esperti siano vittime dell’effetto Dunning-Kruger. Ciò capita quando essi si portano dietro la convinzione di essere esperti anche quando dicono la loro su campi di cui in realtà non sanno molto, cosicché la loro autorevolezza si tramuta in vuota sicumera. Lo stesso Dunning lo ha spiegato chiaramente: nessuno è completamente immune dall’effetto eponimo. Un esempio può in questo senso aiutare. Nel mondo ipercomunicativo dei social media, come sappiamo, il silenzio è scomparso. Tutti parlano di tutto, sempre. Il risultato è una cacofonia terribile, in cui il parere degli esperti è equiparato a quello dei profani e le discussioni degenerano spesso in risse da angiporto. In proposito, Umberto Eco scrisse, aristocraticamente, che i social media «danno diritto di parola a legioni di imbecilli» – e si attirò così l’ira funesta dei legionari.
L’effetto Dunning-Kruger ci aiuta a comprendere perché Eco avesse in buona parte ragione. La democratizzazione radicale dei social media, tale che chiunque, in qualunque campo, può placidamente ignorare il baratro cognitivo che separa le sue competenze da quelle degli esperti e pretendere di interloquire alla pari con loro. Un aspetto che però Eco non considerava è che può anche capitare, e di fatto spesso capito, che quando un esperto entra in una discussione che non concerne la propria expertise, cada nella tentazione di continuare a impersonare la parte dell’esperto: così anche quell’esperto diventa vittima dell’effetto Dunning-Kruger. Insomma, Umberto Eco aveva ragione: internet dà la parola a legioni di imbecilli, che spesso strepitano invece di mantenere un rispettoso silenzio. Solo che, a seconda dei casi, ognuno di noi può essere il legionario di turno. E per capire quanto questo discorso sia rilevante per la discussione sull’epidemia, basterà allora pensare a quegli esperti di anestesia e rianimazione che si sono autonominati esperti di epidemiologia, decretando prematuramente che l’epidemia era finita solo perché dal loro reparto per qualche settimana non erano passati malati gravi.
La seconda precisazione rispetto alla tesi per cui, dati i limiti cognitivi degli esseri umani, in situazione di grave pericolo sociale il governo è legittimato ad essere più impositivo di quanto non accada normalmente, affidandosi agli esperti, è piuttosto ovvia. Anche quando gli esperti rimangono all’interno dei campi di cui sono veramente esperti, essi non sono affatto infallibili: anche loro sbagliano, e frequentemente. E, in più, assai spesso gli esperti di un campo sono in disaccordo tra loro anche su questioni fondamentali: pensiamo a come, in questi mesi, vi siano stati virologi ed epidemiologi che, contro il parere della maggioranza dei loro colleghi, hanno insistito sul bisogno di affrontare l’epidemia mirando alla cosiddetta “immunità di gregge”. Il disaccordo tra scienziati è costitutivo del progresso scientifico, la cui strada non è mai predefinita ma viene trovata per tentativi ed errori. Insomma, chiedere agli scienziati di darci certezze è un grave e pericoloso errore.
In terzo luogo, non sempre è chiaro quali siano i veri esperti a cui la società e le istituzioni devono rivolgersi per affrontare determinati problemi. Per esempio, rispetto all’alternativa tra lockdown stretto e sensibilizzazione dei cittadini sulle misure di contenimento del virus tutto è stato affidato a medici, biologi ed epidemiologi. Ma così è sostanzialmente mancato il contributo degli scienziati sociali: degli psicologi sociali (come detto), dei sociologi, degli eticisti, dei filosofi del diritto, degli studiosi di comunicazione.
A parte questi caveat, comunque, ormai è chiaro che l’idealizzazione della razionalità è un indebito retaggio del passato che andrebbe abbandonato. Spesso, infatti, e ciò soprattutto nei campi in cui noi non siamo esperti, tendiamo a prendere decisioni inappropriate, errate o persino dannose. Ciò dovrebbe indurci a ritenere, dunque, che, nelle situazioni in cui la sicurezza generale è a rischio, dovremmo attribuire grande importanza alle opinioni degli esperti, almeno quando essi si esprimono nell’ambito dei propri campi di competenza. E ciò anche quando tali opinioni possono portare a provvedimenti impopolari, come i lockdown, l’obbligo di indossare le mascherine o, ancora, la chiusura di scuole e università.